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"Sulla strada. Fotografi di Sicilia". Il lungo cammino della mostra che racconta un'epoca

"Sulla strada. Fotografi di Sicilia". Il lungo cammino della mostra che racconta un'epoca

di LORENZO MARCHESE

Sette croci di legno, color celeste, blu e verde acqua, accatastate l’una sopra l’altra, ricavate da una barca da qualche parte a Lampedusa; una bambina biondissima affacciata al parapetto di legno di casa sua studia con lo sguardo un’apertura, dal suo balcone, oltre il muro che divide la Germania Ovest dalla Germania Est nel 1983.

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Quando entro nella stanza in un giorno di fine marzo, a disorientarmi non è la bellezza disincarnata di queste fotografie. Mi pungola invece una memoria visiva che non sapevo di possedere. Ho già visto queste immagini (rispettivamente: di Corrado Lannino e Luciano Del Castillo) in un passato che non saprei individuare, sui giornali o, con maggiore probabilità, su Internet, prive dei nomi e dei contesti. Ma scorrendo le targhette e il catalogo, mi rendo conto che scoprire chi sono questi fotoreporter siciliani (convocati per la mostra Sulla strada. Fotoreporter di Sicilia, allestita in marzo nella sede del Sindacato unitario dei giornalisti di Sicilia al limitare di Borgo Vecchio, Palermo) non fa suonare alcun campanello. Abito in Sicilia da quasi tre anni ormai e sono un consumatore bulimico di immagini, come chiunque possegga uno smartphone. Tuttavia, solo ambientandomi dentro questa stanza rettangolare, in cui con qualche economia funambolica dello spazio (al tocco della parete, sulla destra, noto che hanno dovuto murare e ridipingere una vecchia porta per esporre tutto) sono esposte le ottantotto istantanee, due per autore, posso certificare che né di Sicilia né di fotografia so ancora le cose fondamentali. Sono sempre in posizione d’osservatore, dalla quale sento che dovrei liberarmi: perché quando una foto non è sorretta da una storia vera che la precede, viene risucchiata indietro, nel vuoto in cui ogni immaginazione si equivale.

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Forse questo è il vero motivo, oltre all’amicizia, per il quale mi accompagna nella visita Franco Lannino. Ha organizzato la mostra da zero mobilitando i contatti di oltre trent’anni di lavoro. Nella sua vita precedente era un fotoreporter piuttosto noto da queste parti. Ha iniziato negli anni Settanta, minorenne, al seguito del fratello maggiore Giuseppe, pure qui esposto; ha proseguito nell’agenzia Publifoto portata a Palermo da Salvatore Brai, che ebbe un ruolo decisivo nella formazione dello zoccolo duro dei fotografi siciliani («molti di quelli che vedi sulle pareti hanno iniziato lì»). Ha raccontato per «L’Ora» e molti altri quotidiani le periferie di Palermo, il centro storico prima che si trasformasse in un “taglierificio” a cielo aperto, documentato la scia di sangue dei delitti di mafia dagli anni Ottanta fino agli ultimi fuochi di vent’anni fa, Capaci e via d’Amelio in tempo reale, gli sbarchi a Lampedusa sin dagli inizi: «Quando i Lampedusani» punge «erano accoglienti con chi sbarcava». Gli chiedo perché e nella matassa dei suoi racconti – è un gran parlatore – mi resta impresso questo aneddoto: non era raro che autoctoni non meglio identificati nottetempo andassero a ripulire le imbarcazioni appena giunte dall’Africa di apparecchiature, carburante, oggetti vari. La fine del mestiere di Franco è arrivata lenta e annunciata. Non con Internet per tutti, nemmeno con Facebook, al contrario di quello che pensavo. È stata una morte prevedibile, per chi aveva abbastanza disincanto – in Davanti al dolore degli altri Susan Sontag notava (nel 2003!) che in virtù delle possibilità di falsificazione offerte dal digitale «la pratica di inventare drammatiche immagini di cronaca, mettendole in scena per la macchina fotografica, sembra ormai sul punto di diventare un’arte perduta». Ma il colpo di grazia si può datare attorno al 2011, quando Instagram ha imposto a tutti la libertà di scattare e condividere: con la promessa di un like, una segnalazione e magari qualche ritorno d’immagine da parte di mezzi d’informazione che se le prendono e basta, le foto, senza pagarle. Nel 2016, Franco conservava ancora un contratto per seimila euro al mese con Studio Camera, la sua agenzia fondata nel 1988 insieme a Michele Naccari: ma era l’ultimo rimasto dopo uno stillicidio di accordi al ribasso con una miriade di gruppi editoriali, dopo aver rifiutato offerte di collaborazione che persino a me, cresciuto nell’epoca del volontariato culturale, paiono insultanti. A sessantasei anni, Franco rimane il fotografo ufficiale del Teatro Massimo di Palermo: e tiene in piedi, con ben pochi soldi, un gattile a Boccadifalco, che è il rifugio dove io, in fuga da Roma e dalla mia vita precedente, l’ho incontrato.

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«Il lavoro del fotoreporter è sparito, non sarà sostituito da un’altra figura professionale… siamo dei dinosauri» mi spiega. Per farmelo capire mi porta davanti a una foto del 1992 a Chicago: Cossiga sorride, ha un’aria che mi pare stremata e un copricapo indiano coloratissimo contrasta con la montatura dorata anni Settanta, il completo blu. Appartiene a Giosuè Maniaci, che ha seguito l’ex presidente della Repubblica in quasi tutti i suoi viaggi e fra le altre cose ha diretto la sezione fotografica dell’Ansa, fino a quando non è andato in pensione per essere sostituito proprio da Del Castillo. Dopo di lui, si vocifera che la direzione non sarà assegnata a un altro fotoreporter. Trovo un altro sorriso, arcaico e impenetrabile, pochi metri più a destra nella stanza: è quello di un giovane Tommaso Buscetta, dietro le sbarre dell’aula del Palazzo di Giustizia di Catanzaro nel 1974, magnetico nei suoi occhi lunghi, non ancora pentito di mafia. L’autore, Mike Palazzotto, è la quintessenza del dinosauro di cui mi parla Franco: della specie non così rara di chi non sa di esserlo, e quindi sopravvive. A settantacinque anni, dopo pausa ventennale in cui si è dedicato al videomaking, gira ancora Palermo collaborando con l’edizione locale di «Repubblica» a mille euro al mese, pensione minima. Di lui, come di tutti gli altri esposti qui, colpisce l’ostinazione che non si è mai fermata al dolore degli altri, alle minacce, ai rischi di un mestiere che non regala nulla. Non si capisce mai se un lavoro del genere sconfini nella vocazione o sia qualcosa di spaccato in due: per metà eroico, per metà osceno, come sintetizza un altro suo scatto del 1976. Pare una posa, anche se non può esserlo del tutto: una donna in lacrime guarda suo marito immerso con la testa in una pozza secca di sangue, mentre due carabinieri intervistano il figlio della vittima e, alle spalle del ragazzino, un uomo discreto che, da targhetta sottostante, risponde al nome Giuseppe Montaperto del «Giornale di Sicilia» prende appunti appollaiato come se tutto questo fosse normale (e in effetti, in un altro tempo, è stato normale). Un altro scatto del 1982, sulla parete opposta, ripete la stessa quintessenza: su una strada cittadina, davanti a tre macchine parcheggiate e una piccola folla d’epoca riparata sotto un albero, è steso un “soldato” di mafia ucciso da poco. Per sottrarlo alla vista qualcuno lo ha coperto, ma al posto di un telo ha usato una decina di fogli di giornale, e la composizione impudica preannuncia la stretta di sangue che da quel periodo, per più di dieci anni, legherà l’informazione regionale e la vita ordinaria.

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Chiedo a Franco chi l’ha scattata. Mi spiega che gli è stata inviata all’ultimo, quando la raccolta poteva già dirsi conclusa. Maurizio D’Angelo, il suo autore, è stato un paio d’anni nel Laboratorio d’If, fondato da Letizia Battaglia e Franco Zecchin (che non ha voluto partecipare alla mostra, in segno di protesta per la mai avvenuta valorizzazione della categoria dei fotoreporter da parte dei sindacati dei giornalisti). Ha abbandonato quello stesso anno la macchina fotografica, e per tutta la vita ha fatto l’antiquario. Oggi, a quanto riporta il catalogo, dovrebbe avere settantacinque anni. Ma in generale, di giovani in senso stretto la mostra non ne ospita. E non è un caso. Fra le firme a me più vicine per anagrafe (Antonio Melita, Grazia Bucca, Alessio Mamo), noto la tendenza a spostarsi da questa regione per lavorare, a documentare un’attualità non più in bianco e nero, a occuparsi di sport e di scenari di guerra lontani, fra Africa e Iraq. Eppure, il più giovane degli autori presentati, Francesco Bellina con la sua istantanea dallo ZEN durante la pandemia, ha la mia età, che giovane non sono più; un altro che pure era stato invitato a partecipare, Marcello Paternostro, non ha fatto in tempo a inviare nulla, a quanto pare fa lo chef in Svezia. Sono tutti vittime collaterali di quella che Guido Mazzoni, in una crasi fra impero dell’immagine e democrazia, ha definito «fotografia diffusa». Mi ritrovo a fantasticare che in questo panorama gli unici spazi di sopravvivenza, per il momento, si annidino nei lavori a maggior tasso di difficoltà tecnica. Le vedute aeree di Luigi Nifosì, di cui vedo esposto un profilo dall’alto di Centuripe, in provincia di Enna, sarebbero impossibili da realizzare per la persona media con lo smartphone. Può darsi che per restare fotografi bisognerà allontanarsi sempre di più dalla strada, poi distanziarsi dalla Terra, trovare spazi di libertà sotto i vulcani, a migliaia di metri di profondità.

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L’istantanea di Cannavaro con la Coppa del Mondo, nello stadio di Berlino, invece, me la ricordavo. Ignoravo il resto. Il suo autore, Tony Gentile, ha scelto questa per andare a colpo sicuro nella memoria collettiva. Ma anche, mi viene detto, con la motivazione singolare che non vuole essere ricordato solo per l’opera che lo ha reso famoso: Falcone sussurra qualcosa a Borsellino, che ridacchia, si trovano seduti dietro un tavolo a Palazzo Trinacria il 27 marzo del 1992, pochi mesi prima di morire entrambi, in piena luce, per mano mafiosa. All’epoca Gentile aveva ventott’anni e lavorava per Reuters, che in anni recenti ha lasciato per tornare a fare l’insegnante. Quel giorno del 1992 non aveva idea che l’immagine sarebbe diventata un simbolo della storia italiana, non poteva sapere che l’avrei rivista ovunque in ogni decontestualizzazione possibile, persino ricreata in una classe di quarta elementare da due bambini della provincia di Sassari in giacca e cravatta. Su tutto, non poteva sapere che lo scatto l’avrebbe reso famoso senza farlo ricco; che avrebbe perso parecchi soldi in tribunale, per farsi riconoscere a più riprese i soldi di diritti e merchandising per una foto che priva della sua firma ho scorto su tazze, calamite, magliette, murales, interni di edifici scolastici, lungomari, aeroporti, perché i diritti di una foto riconosciuta come “opera d’ingegno” scadono dopo settant’anni, mentre i diritti di una che non è opera d’ingegno scadono dopo trenta («ma chi stabilisce a quale tipo appartiene una foto? su che basi?» chiedo a Franco, che in tutta risposta allarga le braccia). Non conosceva nulla di tutto questo, anche se ci ha combattuto per decenni e, a quanto dice la sua biografia nel catalogo, ci si scorna ancora («è fortemente impegnato in una campagna di sensibilizzazione per la modifica della legge italiana sul diritto d’autore» leggo, collego all’istante). Per ironia della sorte, oltretutto, la foto qui c’è: nello sfondo di un’altra.

La casualità di superficie dell’inquadratura è, in realtà, il frutto di una notte intera che Naccari passò in questura il 20 maggio 1996, per realizzare la composizione che voleva. Quando Giovanni Brusca fu arrestato, Naccari aspettò che transitasse davanti alla foto di Falcone e Borsellino appesa a una parete, per catturare la sovrapposizione dei tre volti e costruire una visione potente e didascalica, un simbolo di rivincita su decenni di potere mafioso. E in effetti Brusca, barba lunga e camicia chiara, guarda verso il basso abbastanza confuso, è impossibile che non intuisca quello che lo aspetta, non può non sapere che quella foto capterà il trionfo di un potere buono contro il suo; ma è anche, senza equivoci, disorientato per i segni freschi, inconfondibili delle percosse su faccia, naso, occhi e bocca. La riserva istintiva su un trattamento non molto delicato che, s’intuisce, quella notte Brusca ha subìto me la ricaccio in gola subito. È una difesa astratta, che tiene conto dei diritti di chi è dentro quell’immagine, dei suoi parenti e familiari, imperniata su categorie che devono essere difese in tempo di pace. Sento però altrettanto bene, con le nozioni di storia regionale che da continentale possiedo, che lì si era in un altro tempo, che quella persona e il gruppo a cui appartiene si sono presi la responsabilità diretta di cose di cui voglio sapere nel dettaglio il meno possibile: e che la foto può essere anche letta come un segno di sollievo che sancisce la fine ideale di una guerra. Fuori da quel tempo d’eccezione, è un’immagine mutila.

Non è lo stesso tempo, insomma, dell’altro scatto di Naccari del 18 gennaio 2008. Lì si vede Totò Cuffaro nel suo ufficio, appena condannato in primo grado all’interdizione dai pubblici uffici per favoreggiamento, senza l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, offrire cannoli ai presenti. A quanto pare, i dolci della discordia arrivavano ogni mattina da Lercara Friddi, offerti “per devozione” da un amico: Cuffaro li stava solo spostando dal tavolo. Ma pochi mesi prima, nel maggio 2007, il libro giornalistico La Casta di Stella e Rizzo era diventato il bestseller dell’anno, e i Vaffanculo-Day di Grillo sarebbero arrivati in settembre. I tempi dell’antipolitica erano troppo propizi per non interpretare l’immagine nel modo più ampio possibile, come la grottesca abbuffata di un potere svergognato: Franco, guardando i negativi in studio, se n’è accorto e ha spinto per vendere la foto a un prezzo alto. Sarebbe bello chiedere a Naccari stesso una conferma, ma si è ritirato nel 2018, non così anziano, e Franco testimonia in sua vece. Il suo occhio è diventato simile all’obiettivo di una macchina fotografica di una volta – cattura, trascrive senza connettere e non riconosce il prossimo. Per una strana coincidenza, anche Nicola Cardinale (classe 1971), che da Publifoto è passato nei primi anni Zero a lavorare per Studio Camera, ha finito per delegare per altre vie la vista all’apparecchio. Un’istantanea splendida di una nave da crociera che passa, per un incastro prospettico, sull’erba limpida del Foro Italico di Palermo, mi fa chiedere cosa significhi di preciso la nota biografica del catalogo in cui si dice «nel 2016 si ritira a vita privata». Nicola ha la retinite pigmentosa, una malattia genetica che nel suo caso gli ha impedito la visione laterale, ma non ha ostacolato la sua carriera. È venuto a visitare la mostra qualche giorno prima di me, ormai quasi cieco: Franco lo ha guidato con pazienza per mano.

Un poster incollato alla finestra che dà sul mare riporta i nomi delle persone alle quali Sulla strada è dedicata: i fotoreporter siciliani morti. Fra loro non figura nessun “caduto” in servizio – a differenza degli otto giornalisti uccisi in Italia dalla criminalità organizzata: ma si leggono nomi che perfino io, grazie alla notorietà fuori dai confini del mestiere, conosco, come Letizia Battaglia. Qui sono appesi degli splendidi lavori della figlia Shobha, in bilico fra cronaca di sangue e fotografia di posa; ed eccola, Letizia, giovane e bella con le infradito in mano a piedi nudi per via Giulia a Roma, ritratta da Santi Caleca prima che iniziasse a lavorare con la macchina fotografica, e dopo c’è Ferdinando Scianna, che Nifosì ha ritratto mentre col suo apparecchio fotografa me e gli spettatori, a rievocare che, fuori da questa stanza, è più vivo e presente che mai, anche se non lavora più. Loro due, e tutti gli altri, infine tutti i fotoreporter che hanno attraversato la fine del secolo scorso: autori scomparsi, ormai non più riconosciuti né pagati, orgoglio di un mestiere che è stato smantellato, polverizzato, privato di senso per eccesso di facilità. È probabile che il mio lieve sconforto derivi dall’evidenza che, in capo a un numero di anni che non saprei quantificare ma comunque inferiore alla mia aspettativa di vita, li raggiungeremo: la categoria di cui faccio parte (studiosi, recensori, critici a vario titolo) è indifesa e priva di sindacati, davanti a un mercato che si fa forte di ogni minima progressione tecnologica per declassare le professionalità e pagare sempre meno. Non mi è difficile figurarmi qualcosa che solo agli ingenui parrebbe allucinatorio: una mostra di questo tipo, in questa stessa stanza fra trent’anni, solo con me al posto di Franco e non so chi al posto mio, e io anziano parlo di come l’AI sia stata un meteorite per il giornalismo culturale. Sono entrato in questa stanza per vedere foto che non sapevo di aver già visto; adesso vorrei uscirne potendo avere di fronte le persone, uomini e donne, che le hanno rese reali. Se riuscissi a guardarli negli occhi, uno accanto all’altro per il tempo necessario, e potessi per estrema finzione leggervi dentro la loro storia, senza testimonianze indirette e lacune dettate dalla mia ignoranza, sono sicuro che coglierei in pochi secondi tutto quello che sta a monte dell’immagine e le dà vita. Potrei capire davvero e forse sapere qualcosa anche del destino di quelli come me: non ci sarebbe bisogno di parlare, del resto io non saprei bene cosa dire loro. Poi soprassiedo, ringrazio Franco dell’accompagnamento. E dopo un caffè veloce alla macchinetta con Roberto Leone, che ha contribuito all’allestimento e mi annuncia i prossimi giri della mostra (ha aperto il 23 aprile la decima edizione della Via dei Librai, da giugno sino al 2 luglio a Gangi sulle Madonie, ospitata dalla Fondazione Gianbecchina, poi in giro per qualche città che la vorrà, tutto a titolo gratuito, perciò rimettendoci soldi di tasca propria) Franco se ne va per fare la raccolta quotidiana di cibo per il gattile, e io, attraversata la strada, posso dirigermi a colpo sicuro verso il mare, con gli occhi finalmente chiusi.

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