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Anselmo: "Leggi bavaglio e Cartabia, che mestiere diventa quello di cronista? Siamo tornati al ciclostile”
di Nuccio Anselmo
Ma lei perché scrive “contro” di me? I cronisti, quelli che si rispettano, che sono praticamente la stragrande maggioranza in Italia, si sentono spesso ripetere questa frase dal mafioso, politico corrotto, imprenditore, usuraio, pedofilo o tangentista di turno, che cercano come sempre di personalizzare la questione parlando dei classici attacchi strumentali e via dicendo. Invece la “verità” è all'opposto. I cronisti di giudiziaria non scrivono mai “contro” qualcuno, ma per un mestiere in cui credono, ancora, nonostante tutto, e per il sacrosanto diritto di informare i cittadini su quello che succede in un Palazzo di giustizia, che poi è il riflesso ragionato di quanto avviene da altre parti. Non si tratta, nonostante qualcuno continui a dire della diffusione a macchia d'olio dello stigma di colpevolezza eterna come la prassi comune, di sciacallaggio mediatico. C'è anche quello, certo, ma si tratta di spazzatura mediatica minoritaria. Qui invece si tratta di Informazione, dove la I è maiuscola sempre verso i lettori-fruitori. Se una persona viene privata della libertà personale bisogna spiegarlo nella maniera più chiara possibile a tutti, ma a parecchi ormai, questo dà molto fastidio per quel principio d'intoccabilità che sentono di possedere quando si siedono su qualche sedia importante.
E se si andrà avanti con la la modifica dell'articolo 114 del Codice di procedura penale, nell'ambito di una legislazione che è stata rivoltata a piacimento come un calzino bucato da chi era al potere negli ultimi decenni, snaturandosi completamente, con la vigenza del divieto di riportare i virgolettati delle ordinanze di custodia cautelare fino al termine delle indagini preliminari ovvero all'udienza preliminare, si sarà consumata quella che non è esagerato chiamare una “censura”. Diventeremo sicuramente un Paese meno libero e meno democratico. Quando invece se si analizza il cosiddetto combinato disposto tra l'attuale Codice di procedura penale e le nostre Carte deontologiche c'è già tutto scritto chiaro e tondo quali siano i parametri entro cui muoversi. Ipotizziamo per esempio uno scenario futuro. Ammesso che passi il diktat, il giornalista dovrà in sostanza riassumere con parole sue quanto viene riportato nell'ordinanza di custodia cautelare, privandosi quindi nel suo testo finale elaborato per il lettore-fruitore della “fonte” principale che spiega tutto. Ed ecco che nelle redazioni “pioveranno” querele temerarie concepite su questo teorema: lei ha travisato quanto c'era scritto tra le carte dell'inchiesta, oppure lei ha scientemente alterato il significato letterale dell'ordinanza, oppure lei ha riportato solo alcuni concetti tralasciandone altri. Insomma un ulteriore aggravio di litigiosità per una professione che ormai da anni viene attaccata da tutte le parti, anche per colpa della nostra categoria per carità, che si è rifugiata spesso nel copia-incolla senza approfondire.
Senza contare, e questo vale soprattutto nel Meridione, che dalle nostre parti ci sono le “variabili” mafiose che mettono in gravissima difficoltà chi deve occuparsi di questi temi dal punto di vista giudiziario, non tanto nelle grandi città ma in quel tessuto fondamentale di corrispondenti che gravitano nei centri medi e piccoli. In questi mesi, dopo l'introduzione delle norme del “pacchetto Cartabia”, nelle redazioni di tutta Italia si assiste a scene veramente surreali, con comunicati stringati che devono prima essere “vistati” dai procuratori, che quindi sono diventati giornalisti ad honorem, con facoltà di scelta su cosa può essere diffuso e cosa no. Magari si tratta dell'arresto per il sequestro di sei o sette chili di cocaina, e però non si sa praticamente nulla sul nome, sulle circostanze e sul luogo. E così che mestiere diventa il nostro? Siamo tornai al ciclostile? A Messina pochi giorni addietro è stato diffuso un comunicato che indicava l'arresto di un presunto pedofilo, ma ovviamente senza l'indicazione del nome, che comunque era oggettivamente pubblicabile perché i fatti non si erano svolti in un contesto familiare. Anzi proprio il nome avrebbe potuto aiutare a ricostruire i casi in cui sarebbe in teoria rimasto coinvolto, a far trovare magari il coraggio della denuncia a chi non era invece propenso a raccontare tutto. Cosa fare? Le barricate servono, eccome, ma solo se dall'altra parte c'è una volontà chiara e netta di andare avanti con la “censura”. Bisognerebbe avere, o ritrovare, il coraggio, per i giornalisti, di manifestare tra la gente. Altrimenti è meglio il dialogo responsabile seduti intorno ad un tavolo con la concreta voglia di fare passi avanti. E non indietro.
Questo intervento fa parte di una serie di articoli di cronisti impegnati sul fronte della nera e della giudiziaria in Sicilia. Grazie ai colleghi che hanno accolto il nostro invito.
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