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Barresi: "Le leggi bavaglio sono una manna per mafiosi e corruttori ma liberiamoci dalle veline"

Barresi: "Le leggi bavaglio sono una manna per mafiosi e corruttori ma liberiamoci dalle veline"

di Mario Barresi

Qualche anno fa il centralinista del giornale mi filtrò una telefonata: «Mario, c’è un impiegato comunale di Roccacannuccia che chiede di te. Te lo passo?».

mario barresiE vabbe’, passamelo.

La conversazione cominciò senza convenevoli: «Buonasera, volevo solo dirle che, per colpa sua, mia moglie mi ha buttato fuori e non vuole farmi più vedere i miei figli». E si concluse senza che io potessi neppure balbettare alcunché. Il chiamante, infatti, passò subito al commiato: «L’ho cercata solo per dirle quanto danno potete fare voi giornalisti, se lo ricordi quando scrive... La saluto». Clic.

Non ci volle molto a ricostruire chi fosse il “tapino” anonimo. Era davvero un impiegato comunale di Roccacannuccia. Qualche giorno prima in municipio c’era stato un blitz sui cosiddetti (da noi) “furbetti del cartellino”. In una corposa ordinanza il gip attestava il risultato di un’inchiesta durata mesi: decine di indagati, grazie a intercettazioni telefoniche, pedinamenti e, soprattutto, ai video delle telecamere nascoste. In uno di questi - una scena simile alla vecchia sitcom “Camera Café” - due dipendenti chiacchieravano in libertà davanti alla macchinetta. “Raccontando” agli investigatori come funzionava il sistema: chi gestiva la raccolta dei badge, dove andavano i colleghi anziché lavorare e altri dettagli truffaldini. Nelle conversazioni fra i due - particolare importante: non indagati, ma di fatto testimoni chiave - c’era anche dell’altro. Carinerie, vezzeggiativi, nomignoli (tipo «amoruccio» o «tesorina»), frasi intime smozzicate di quella che appariva come una coppia innocente. In tutti i sensi. Erano amanti clandestini. Magari di quelli che “lo sanno tutti”. Tranne la moglie di lui. Che, avendo letto il giornale, comminò la “pena” al fedifrago caffeinomane: “domiciliari”, ma fuori di casa.

Il pezzo l’avevo scritto io. Il “taglione”, come si chiama in gergo, sotto l’apertura affidata al collega di cronaca, con le carte dell’inchiesta. Rilessi l’articolo e lo confrontai con l’ordinanza: avevo avuto l’accortezza (ipocrita) di mettere le iniziali dei due anziché i nomi e cognomi per esteso. Ma non era stato difficile, per la moglie tradita - e non soltanto per lei - risalire all’identità dei due. E io, sinceramente, dopo quella telefonata mi sentii un po’ una merda. Parto da questo aneddoto per rispondere, con colpevolissimo ritardo, all’invito dei colleghi di Fnsi e Assostampa Sicilia a dire la mia sull’attacco concentrico che si sta sviluppando contro la libertà di stampa.

Vero è che il “filotto” fra riforma Cartabia e legge-bavaglio è il colpo, forse letale, sotto la cintola del diritto a informare e, soprattutto, a essere informati. Il famigerato emendamento Costa è una manna per mafiosi e malacarne, corrotti e corruttori, politici e faccendieri. Se fosse stato in vigore nell’ultimo ventennio, io (che non sono un cronista né di nera né di giudiziaria, ma l’inviato di una testata regionale) non avrei scritto qualche centinaio di pezzi. Soprattutto quelli sul malaffare dei potenti. Eppure questa meravigliosa condanna alla “tuttologia”, oltre a liberarmi da insonnie da bucature e ansie da prestazione, mi permette - forse - di avere uno sguardo più disincantato sul rapporto fra giornalisti e palazzi di giustizia, fra cronisti “specialisti” e fonti. Confessiamocelo: ci siamo un po’ appiattiti. Incalzati dai tempi turbo del web; saziati da comunicati romanzati e powerpoint con gli schemini; blanditi dagli uffici stampa; anchilosati dai webinar dell’era Covid; più distanti da dove succedono i fatti.

Ma cosa c’entra col dibattito sulla libertà di stampa?

Secondo me c’entra nella misura in cui, anziché limitarsi a urlare «al fuoco, al fuoco», bisogna provare a spegnerlo, l’incendio in corso. Certo, è una vera pacchia attingere da un’ordinanza di mille pagine con i golosissimi intrecci di uno scandalo fra mafia, politica e affari. Ci campiamo di rendita per due-tre giorni almeno. Più complicato, invece, è provare - sottolineo: provare - ad anticipare il contesto, lo scenario. Ci sono gli open data, ci sono i social (scatole nere di tutte le nostre vite, comprese quelle dei “cattivi”), ci sono le buone vecchie fonti di strada; e dev’esserci la nostra capacità di fare domande e di trovare risposte, di unire i puntini prima che siano gli altri a darci il disegnino.

Un nobile obiettivo zavorrato dai tagli alle redazioni e allo stipendio (per chi ha la fortuna di averne uno) e soprattutto da editorucoli che pagano (quando pagano) cinque euro a pezzo i freelance. È un lavoro più rischioso, soprattutto nell’era delle querele temerarie a raffica (se ne comincio a parlare, facciamo notte). Eppure è un nostro dovere provarci. Un prerequisito che deve accompagnare la giustissima lotta di categoria contro quella parte della politica che prova a metterci la museruola. E in parte c’è già riuscita. Se ci liberassimo dalla schiavitù di veline e brogliacci, saremmo ancora più credibili nel rivendicare la tutela dei diritti dei giornalisti, ma soprattutto dei cittadini. Che, ammettiamolo, ormai non sempre ci riconoscono il ruolo che crediamo di avere.

Provo a spiegarmi meglio. Ribelliamoci, tutti assieme, alle norme oscurantiste. Ma nel frattempo dimostriamo (ai nostri lettori-spettatori-ascoltatori-cliccatori, prima ancora che ai nostri “nemici”) che questo mestiere possiamo e sappiamo farlo bene anche senza le armi di cui vogliono privarci. E, visto che ci siamo, affranchiamoci dalla subalternità alle fonti ufficiali. Magistrati e forze dell’ordine - diciamoci anche questo con franchezza - spesso fanno spallucce di fronte alle nostre legittime richieste di notizie in più, trincerandosi dietro la “dura lex, sed lex” che li ha già imbrigliati, ma talvolta - soprattutto quando conviene a loro - sono prodighi di particolari, anche a costo di infrangere le ingiuste regole.

Gli estremi opposti? Siamo all’oscuro del nome del pub chiuso in centro storico perché usava la mozzarella avariata, ma conosciamo con enciclopedica precisione tutti i libri letti da Messina Denaro; covo per covo. Mi arruolo, da soldatino semplice, nella Guerra Santa contro i Barbari che calpestano la libertà e la qualità del nostro lavoro. Ma, oltre a combattere la cattiva politica, vorrei che ci relazionassimo alla pari con i nostri interlocutori. Nel rispetto reciproco. E che ognuno si assumesse la propria responsabilità. Come, ad esempio, il gip dei “furbetti del cartellino” di Roccacannuccia, nel citare colloqui fra non indagati (copincollati dalla richiesta di misura del pm, che li aveva a sua volta copincollati dall’informativa di polizia giudiziaria), comunque fondamentali per la ricostruzione dei fatti, avrebbe potuto omettere gli «amoruccio» e i «tesorina» dalla discovery dell’ordinanza, riservandoli ad atti non subito di pubblico dominio. Senza nulla togliere all’efficacia, prima giuridica e poi per riflesso mediatica, del racconto. Il processo penale, per inciso, è finito con assoluzioni di massa. E un mio amico roccacannuccese, qualche tempo fa, mi ha raccontato che i due amanti adesso vivono assieme. Felici e contenti. Il sollievo non è assolutorio. Certo, anch’io avrei dovuto resistere alla pruriginosa tentazione di spiattellare i trottolino amoroso e dudù dadadà nell’articolo. Ma ho commesso lo stesso errore che sto provando, con goffaggine dolosa e radicata incapacità di sintesi, ad autodenunciare: quello di farmi - farci - scudo con il lavoro apparecchiato da altri.

Quindi ben venga l’«obiezione civile» delle toghe che hanno annunciato di voler continuare a distribuire le carte. E noi ce le prenderemo, dovremmo prendercele a maggior ragione se fossimo costretti a fare il «riassunto sintetico» (come alle elementari) senza «pubblicazioni integrali o parziali del testo». Ma se loro fossero più attenti a cosa scrivono, e noi a cosa pubblichiamo con l’alibi dell’ostensibilità, già oggi saremmo tutti più forti contro la censura dei finti garantisti, santi protettori dei potentati. In una battaglia comune, seppur in trincee diverse. Al termine della quale - teniamolo bene a mente - saranno molto di più i giornalisti, in caso di sconfitta, a uscirne con le ossa rotte.

 

Questo intervento fa parte di una serie di articoli di cronisti impegnati sul fronte della nera e della giudiziaria in Sicilia. Grazie ai colleghi che hanno accolto il nostro invito.

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