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Contraddizione nella trattativa Fieg-Fnsi. La manovra Inpgi innalza l'età pensionabile precludendo le nuove assunzioni di massa. Occupazione: coinvolgere il Governo per riequilibrare il sistema tra uscite e entrate.
Il varo della manovra correttiva dell'Inpgi e la firma di un nuovo contratto che abbia come punto fondamentale il concetto di inclusione, ossia l'ipotesi di portare dentro il Cnlg tutti i collaboratori e i lavoratori autonomi che oggi ne sono fuori. Sono questi i due problemi fondamentali sui quali nelle prossime ore il sindacato giocherà il proprio destino e quello dell'intera categoria.
In entrambi i casi l'obiettivo è unico. Con la manovra si punta a salvare l'istituto dal default annunciato dall'attuario e dalla Corte dei Conti, con le nuove assunzioni a dare nuova stabilità ai conti dell'Inpgi in un virtuoso turn over.
Il problema è però che queste due proposte sono tra loro antitetiche. Chiedere nuove assunzioni con un mercato del lavoro ingessato dal blocco delle uscite per l'innalzamento dell'età pensionabile (repentina e penalizzante soprattutto per le donne) appare una strada senza uscita.
Non si può non tenere conto che oggi è in crisi non il settore dell'editoria ma l'intero sistema su cui l’industria dell’informazione si regge. I dati dell'Inpgi sono chiari: i giornalisti dipendenti oggi sono 15.461 e oltre 600 sono stati messi in uscita dalle aziende con i piani di crisi presentati negli ultimi tre anni.
Finora le aziende autorizzate a procedere ai prepensionamenti sono state 17 e i giornalisti che saranno usciti, quando i piani di ristrutturazione si concluderanno nel febbraio del 2018, saranno 232. [Leggi]
A questi vanno aggiunte le richieste fatte al ministero da altre 26 aziende che hanno chiesto il prepensionamento di 384 giornalisti dipendenti. [Leggi]
Nell'attesa che i fondi per i prepensionamenti arrivino (ma arriveranno?), le aziende affrontano il problema dell'abbattimento del costo del lavoro ricorrendo alla solidarietà e alla Cigs, due ammortizzatori sociali che (fonte Inpgi) avrebbero riguardato 5.155 giornalisti e sarebbero costati 22 milioni di euro nel 2015.
Tenuto conto che quasi tutte le aziende avevano già presentato e concluso precedenti stati di crisi (gestiti con prepensionamenti, Cigs o solidarietà) con consistenti riduzioni degli organici, mediamente negli ultimi quattro anni la riduzione del costo del lavoro è oscillata tra il 15 e il 30 per cento.
La quasi totalità dei 26 piani di crisi presentati al ministero del Lavoro e gestiti con il ricorso alla solidarietà o alla Cigs, in attesa di finanziamento, si concluderà entro il 2017.
In questa situazione ufficialmente accertata, nell'ipotesi in cui i piani non dovessero essere finanziati e nell'impossibilità di fare fronte all'attuale costo del lavoro, si delinea per i prossimi due anni uno scenario che prefigura uno scontato ricorso alla legge 223, ovvero ai licenziamenti collettivi per motivi economici.
E' bene ricordare che questa legge impone criteri di scelta del personale che penalizzano maggiormente i giornalisti più giovani, con minore anzianità aziendale e minori carichi familiari. Pertanto si giungerebbe alla anacronistica situazione in cui i giornalisti più anziani e con gli stipendi più alti potrebbero restare in redazione, mentre i più giovani e meno pagati potrebbero perdere il lavoro.
E' in questo contesto che la manovra presentata dal Cda dell'Inpgi appare illogica. Bloccare le uscite per pensione di anzianità e innalzare l'età pensionabile equiparandola agli assicurati Inps, portandola a 66 anni e 7 mesi anche per le donne, equivale a ingessare l'intero settore, impedendo di abbassare il costo del lavoro e rendendo solo un'utopia sindacale il turn over con migliaia di nuovi assunzioni.
Appare scontato che senza uscite non ci potranno essere nuovi ingressi. Nessuna logica può infatti sostenere l'ipotesi di assunzioni che farebbero lievitare il costo del lavoro per aziende che già faticano a garantire il regolare pagamento degli stipendi attuali.
Nessuno discute la necessità di una riforma che possa rimettere in ordine i conti dell'Inpgi. Semmai va detto che la manovra andava fatta già parecchi anni fa, quando invece ci si vantava di un istituto in piena salute, che faceva utili nonostante la crisi generale. Sarebbe stato tutto più facile e meno pesante per la categoria.
Il problema è che questa manovra che va a raschiare il fondo del barile, sebbene richiesta dai ministeri vigilanti, servirà solo a garantire la vita dell'istituto ancora per pochi anni, assicurando quella liquidità che oggi manca e per garantire la quale la presidente, con proprie delibere, ha già disinvestito e smobilizzato oltre 190 milioni di euro. Purtroppo però la manovra non potrà garantire la sostenibilità a 50 anni come richiesto dalla legge Fornero. Per essere ancora più chiari: la manovra salverà ancora per qualche tempo l'Inpgi e gli stipendi dei suoi dirigenti ma non le nostre pensioni.
Il secondo effetto negativo è che, bloccate le uscite e di conseguenza il mercato del lavoro, non ci saranno spazi negoziali per il nuovo contratto e per le nuove assunzioni.
Il sindacato adesso si trova di fronte a una via che potrebbe non avere uscite. Approvare la manovra e salvare ancora per qualche anno un istituto che ha ormai perso le prerogative di tutela e salvaguardia della professione giornalistica, abbassando le prestazioni a livello di quelle dell'Inps senza riuscire a garantire quei principi di solidarietà di welfare che ne avevano caratterizzato la nascita e la successiva privatizzazione, costringerà la Fnsi a sedersi al tavolo del negoziato contrattuale per chiedere nuova occupazione, ben sapendo però di avere spazi esigui e solo prospettive di rinuncia a quanto finora garantito. Con il pericolo dichiarato della fine dell'applicazione del contratto a partire dal 1° ottobre per effetto della disdetta della Fieg.
Le prove muscolari di redazioni ormai impoverite negli organici e negli stipendi, annunciate con il possibile ricorso alla ormai desueta conflittualità con gli editori, o la speranza di un eventuale intervento governativo non risolverebbero comunque il problema. Una mediazione sulla piattaforma Fieg, a fronte della richiesta di inclusione fatta dal sindacato, significherebbe dovere poi accettare almeno la metà di quei 25 punti chiesti dagli editori: e già questo basterebbe a smantellare buona parte del contratto e delle sue garanzie.
E allora si deve affrontare il problema del sistema nel suo complesso. L'iterlocuzione del governo va chiesta e sul tavolo va posta con forza la richiesta di un negoziato a tre con la Fieg che riguardi, da un lato, la gestione non traumatica degli stati di crisi e che garantisca uscite dignitose ai colleghi che hanno i requisiti per lasciare il lavoro e ai quali questo diretto viene ora negato, e, dall'altro, il sostegno alle agevolazioni per nuove assunzioni. Avendo tra l’altro sullo sfondo il varo della legge sull’editoria che potrebbe portare alle aziende risorse economiche importanti.
Se nulla di tutto ciò dovesse esserci, le aziende continueranno a tagliare gli stipendi, i giornalisti continueranno a perdere il posto di lavoro e l'Inpgi, una volta stabilizzato il deficit strutturale tra entrate contributive e uscite per prestazioni, non sarà più in grado di fare fronte ai suoi compiti istituzionali.
Non è una questione di muscoli, di slogan e di maggioranza. Ma di semplice buon senso.
Luigi Ronsisvalle
Consigliere generale Inpgi