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Lannino: “Il diritto di cronaca è sacro. Palermo era una macelleria ma da queste foto è nata la reazione alla mafia”

di Tiziana Tavella
Un canto, nero, doloroso, per quella Palermo bellissima e violata, che non ha accettato di morire e si è rialzata sorretta dalla sua gente. Un canto, rosso, forte, urlato per la giustizia che Palermo merita e che fortemente ha voluto dopo gli anni del sangue delle guerre di mafia, delle stragi. Questo è “Macelleria Palermo” la mostra fotografica di Franco Lannino e Michele Naccari adesso alla sua seconda esposizione nella sede dell’Associazione Siciliana della Stampa in via Crispi 286, dove sarà visitabile ancora sino a venerdì 9 febbraio. Subito dopo, la mostra che mette a disposizione delle coscienze di chi accetterà di vederla, un fortissimo patrimonio storico - culturale farà tappa in alcune città italiane. Franco Lannino spiega perché mettere in mostra nella “casa dei giornalisti siciliani” di via Crispi 286 assieme alle 44 foto in bianco nero più alcune a colori mai esposte sino ad ora, ha un significato particolare collegato anche direttamente al momento storico che l’informazione sta vivendo “L’idea di esporre qui la mostra è venuta al vicesegretario vicario dell’Associazione Siciliana della stampa Roberto Leone e non me lo sono fatto dire due volte. Oggi c’è un’erosione della libertà di stampa e quindi della libertà per il giornalista di poter fare il proprio mestiere. Proprio con questa mostra si dovrebbe riflettere su questa erosione del campo su cui il giornalista può e non può operare, anche rendendo chiaro come la sensibilità sia cambiata nel corso degli anni e che oggi può apparire ignorata o calpestata. Ma se ogni tempo ha la sua sensibilità, la sua storia ed i suoi modi di fare, oggi mi sembra che si stia esagerando con proposte di legge che da Rodotà in poi, con la prima legge sulla privacy, hanno si limitato il campo di azione, ma non si sarebbe pensato mai a quello che c’è adesso”.
Come è cambiata la sensibilità, l’idea di privacy ed il fotogiornalismo in questi 30 anni?
“Per fare un esempio di come non esistesse l’idea di privacy, una volta mi venne chiesta dal giornale L’Ora la foto di un bambino che giocando aveva riprodotto un’impiccagione vista in Tv, morendo cosi. Andai così in camera mortuaria a chiedere ai genitori una foto del figlio e loro con ingenuo candore mentre erano nel pieno stupore e dolore di quanto accaduto mi dissero ‘qua è mio figlio, fotografalo’. Era sul marmo, io l’ho fotografato, ed il giornale lo ha pubblicato. Oggi la sensibilità è radicalmente cambiata ed io non rifarei mai più una foto del genere. Non bisogna mai arrivare a nessun estremo, in alcun senso. Adesso si arriva a prevedere per legge che non si possano dare i nomi degli arrestati. La cronaca ha un suo diritto ed è sacra. Tutti devono sapere cosa succede nel mondo. Nel momento in cui si comincia a non sapere quello che accade intorno sia dal punto di vista di quello che si scrive e da quello fotografico di ciò che accade sotto gli occhi di tutti, è lì che inizia la caduta verso una dittatura”.
Nella mostra ospitata in Assostampa, sono esposte alcune foto a colori, segno di un cambiamento storico e di linguaggio fotografico che ricorda anche come le ultime stragi di mafia non siano cosi lontane dai nostri giorni.
“In questa scelta c’è un po’ di tecnica, di sensibilità ed un po’ di pudore. Tecnica perché ad inizio anni ‘80 il colore c’era già ma non era però molto usato perché difficile da produrre, mettere su carta e stampare sui giornali che in quel momento stampavano in bianco e nero per questioni anche di costi e tecnologie che non c’erano. I primi morti ammazzati erano tutti in bianco e nero, che era immediato e veniva stampato nei nostri laboratori artigianali e immediatamente arrivava ai giornali ed andava nelle rotative per essere stampato, il colore quindi non era considerato in questa fase. Negli anni successivi il colore inizia a prendere piede, con i rotocalchi, con i settimanali ed anche alcuni quotidiani. Le atrocità cosi si mettevano più in evidenza, il sangue è rosso ed il rosso è un colore disturbante dal punto di vista della coscienza. Ci siamo chiesti con Michele se esporre tutto in bianco e nero o in due parti, qui è subentrata la sensibilità, il mio pudore, pensando a noi che abbiamo visto con i nostri occhi l’orrore, il sangue, la realtà per quella che era e che era a colori. Il bianco e nero non esiste, noi vediamo a colori, è un artificio. Ma una mostra di questo genere soltanto a colori ho pensato che potesse essere troppo forte, ancora più disturbante e quindi per questo è stata pensata in bianco e nero. L’ architetto Giovanbattista Prestileo che ha curato l’allestimento ed ha avuto l’idea del concept del filo nero che taglia in due i luoghi dove la mostra viene esposta e che segue la morte passo passo dall’inizio sino alla fine, vide per caso alcuni scatti già pubblicati a colori e mi fece riflettere sul fatto che la realtà è a colori, che e molto più cruda, più evidente. Il bianco e nero va bene come documentazione e narrazione, ma questa realtà piena, a colori, bisogna anche farla conoscere. Nasce così la coda a colori, con foto stampate più piccole riducendo l’impatto di questo scempio visivo e facendo vedere la realtà del mondo a colori alle persone”.
Pudore, ma anche pietà.
“Si, certamente il senso di pietà fa parte dei ragionamenti che hanno portato a questa mostra proprio pensando che la vista di un delitto è terribile, per altro di mafia e consumato in quelle condizioni è difficile da digerire. I primi tempi fu certamente difficile anche per me fare quelle foto”.
Qui vediamo come viveva male Palermo, come moriva Palermo. Cosa l’ha salvata?
“Si qui vediamo come moriva Palermo e come non si sarebbe risollevata se non fosse stata per quella reazione popolare partita proprio dal basso, che arriva dopo la strage di via D’Amelio, con la morte di Borsellino. Non fu lo Stato a dire basta e a non volere perdere questa guerra, ma la gente. Ricordo che questa reazione si sentiva forte dopo Borsellino, anche l’asfalto ed i sanpietrini di via Roma dicevano ora basta, che non ne potevano più e chiedevano allo Stato di non darla vinta alla mafia. Tutto qui diceva noi siamo lo Stato. Ed il declino iniziò con l’arresto di Riina ed a cascata tutto il resto. La mafia c’è ancora, una piaga che ci terremo ancora per lungo tempo, però sono convinto che le nuove generazioni abbiano il passo giusto e prima o poi come ha detto Falcone e abbiamo scritto nel nostro catalogo, la mafia è un fenomeno umano ed ha un inizio ed una fine”.
Nessun biglietto e il catalogo gratis, perché ?
“ La memoria non si paga, deve essere di libera fruizione non può esserci biglietto o catalogo da pagare. Per questo abbiamo quindi auto prodotto la mostra ospitata inizialmente nello studio dell’ architetto Prestileo, con 44 fotografie, ed anche il catalogo è stato stampato a spese nostre in un migliaio di copie. Non abbiamo chiesto sponsorizzazioni o patrocini a nessuno e scelgo un luogo privato per la prima esposizione. È un pezzo di storia palermitana che abbiamo voluto mettere in mostra per farla conoscere alle nuove generazioni. Siamo stati ripagati in più modi, come quando con mio stupore, ho visto la presenza di molti giovani, ventenni che hanno guardato questa mostra con disincanto , guardando come chi della mia generazione guardava con un certo distacco gli orrori della seconda guerra mondiale, quindi non con morbosità ma con attenzione, facendo domande, ascoltando”.
“Macelleria Palermo” da dove e per chi nasce?
“il titolo è stato suggerito da un giornalista, fotoreporter di vecchia data, bravissimo, Bebo Cammarata, perché quello era diventata Palermo. La genesi è stata abbastanza lunga, durata 4 o 5 anni, da un’idea iniziale che era quella di fare un libro fotografico e di testo, per fare conoscere quello che era l’orrore ed il clima pesantissimo a Palermo negli anni 80, ma anche negli anni 70 con la prima guerra di mafia. Noi siamo arrivati al nostro mestiere di fotografi in piena seconda guerra di mafia, lavorando per l’agenzia “Publifoto” che faceva molta cronaca ed a Palermo cronaca significava ‘nera’. Ci siamo trovati a documentare tutta la seconda guerra di mafia, comprese le stragi passando da Chinnici arrivando fino a Pizzolungo, sino a Falcone e Borsellino ed abbiamo documentato anche quelle di Firenze e di Milano. Nasce quindi per fare conoscere il clima terribile di quegli anni. Il libro si sarebbe dovuto chiamare ‘senza lenzuolo’ con un sottotitolo ‘quando i morti si fotografavano senza lenzuolo’. In quei tempi questo succedeva, non c’era la sensibilità di non mettere il morto ammazzato senza lenzuolo sulle prime pagine dei giornali. Il ‘L’ora’ faceva proprio di queste foto, il suo cavallo di battaglia, messe ad 8 colonne sulle prime pagine. Era in quel tempo normale lasciarli senza lenzuolo, come oggi non sarebbero ovviamente più possibili foto del genere sulla prima pagina di un quotidiano. L’idea del libro è stata poi accantonata, anche a noi sembrò molto forte pubblicare storie e foto terribili di avvenimenti gravissimi. Pensai anche ai figli di quei morti ammazzati, che magari non avevano mai visto quello che era successo e mi sono chiesto chi fossi io per violare quella intimità. Da lì è nato un confronto con giornalisti, avvocati ed anche magistrati da cui ci siamo convinti del fatto che sono foto di fatti di cronaca e che comunque sono già circolate essendo state pubblicate dai giornali. Il fatto di mettere in mostra insomma o alla portata di chi volesse conoscerne la storia ‘ci stava’ consapevoli che potevano essere disturbanti per chi le vede. La mostra arriva dallo stupore provato quando mi sono accorto di come neanche i quarantenni avevano capito la realtà di quegli anni e di quello che facevamo io e Naccari. Mi sono reso conto che non è semplicemente un non ricordare, ma proprio un non sapere. E’ un fatto di memoria che doveva essere portato alla fruizione comune. Cosi ci siamo trovati di fronte ad una scelta, perché ci siamo trovati di fronte a migliaia di morti ammazzati, tanti ne contiene l’archivio mio e di Michele. La selezione si e fatta scegliendo 44 fotografie terribili che dimostrano la ferocia, il vero volto della mafia che non è ne romanzato ne quello della trilogia del padrino , ma morte ed orrore”.
Occhi e cuore in un collegamento imprescindibile che porta alla coscienza che tu hai sviluppato raccontando questi anni.
“Gli occhi erano quelli che vedevano. Il cervello quello che elaborava le immagini e che arrivava al cuore con le sensazioni che ognuno di noi può avere davanti a questi avvenimenti. Il momento in cui ho fatto questo mestiere che amo definire missione e che sono convinto di avere svolto come missione perché a quei tempi eravamo l’occhio dei lettori. Questo era andare sul posto e fare vedere con le nostre foto pubblicate sui giornali cosa era successo. Mettevo tutto il resto in secondo piano, i miei sentimenti, il mio pudore, le mie paure perché dovevo riuscire a documentare i fatti. Questo mi ha aiutato a non fermarmi, a non farmi mai voltare di fronte a nulla, c’erano magari delle foto date o non date in una certa maniera, ma il servizio io dovevo farlo. Certo ti fai una corazza, perché su questo mestiere se cominci a pensarci troppo, prima o poi ti fermi e ci sono stati colleghi che lo hanno fatto perché non sono riusciti ad andare più avanti. Io ce l’ho fatta sino alla fine, ma una cosa adesso la voglio dire. Sino a quando sei operativo al cento per cento vai avanti e non ci pensi. Adesso che sono molto più libero e non faccio più cronaca, penso agli avvenimenti passati, riaffiorano alcuni ricordi e li rivivo nella mia mente e non dico che ci rimango male, ma li guardo sotto un altro occhio, quello della pietà, quello che mancava quando io arrivavo e fotografavo facendo il mio mestiere. Adesso nel mio intimo, nei miei sogni, riaffiorano questi ricordi e mi chiedo come ho fatto a resistere”.
Gli studenti dell'istituto Medi alla mostra Macelleria Palermo
“Macelleria Palermo” , aperta la mostra all'Assostampa