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Collaboratori del Messaggero in stato di agitazione: «Basta scelte imposte, l'azienda apra al confronto»


Una delegazione dell'Assemblea nata sotto l'egida della Fnsi è intervenuta alla riunione del Consiglio nazionale dell'Ordine. «Pagare gli articoli sette euro lordi, spese comprese, è un insulto», tuonano i giornalisti non dipendenti del quotidiano.

collaboratori il Messaggero

 

Una delegazione di giornalisti collaboratori del Messaggero è intervenuta oggi, 22 luglio, ai lavori del Consiglio nazionale dell'Ordine. In un documento, i lavoratori del quotidiano hanno ripercorso le tappe della loro vertenza, con la costituzione dell'Assemblea sotto l'egida della Fnsi, la proclamazione dello stato di agitazione, i tre giorni di sciopero, gli interventi delle istituzioni e i ripetuti rifiuti dell'editore, il Gruppo Caltagirone, di confrontarsi con il sindacato e i rappresentanti delle istituzioni. «Pagare gli articoli sette euro lordi, spese comprese, è un insulto», si legge nel documento dell'Assemblea dei giornalisti, che «rinnova l'invito alle parti sociali e al governo affinché trovi applicazione la legge sull'Equo compenso e chiede, con forza, di aprire un tavolo di crisi del Messaggero e chiede all'Ordine di dare forza al movimento che vuole la cancellazione dello strumento dei Cococo e delle finte partite Iva, che permettono di fatto una precarietà a vita e creano un "lavoro povero", senza tutele né diritti di cui noi siamo un esempio tra tanti. Strumento questo di sfruttamento legalizzato in mano agli editori. Perché valiamo più di 7 euro».

PER APPROFONDIRE
Ecco di seguito il documento dell'Assemblea dei Collaboratori del Messaggero.

Il caso collaboratori del Messaggero
Il 15 giugno scorso Il Messaggero e i Caltagirone hanno stabilito che il lavoro dei collaboratori del giornale sarebbe valso il 30% in meno da lì a un mese. Stabilito, non discusso né ipotizzato. Lo hanno deciso motu proprio, così come era stato comunicato ai fotografi in piena emergenza Covid con una semplice mail.
L'8 luglio il direttore fresco di nomina Massimo Martinelli ha inviato una lettera ai collaboratori in cui scrive: «Siamo un giornale sano grazie al lavoro di tutti coloro che mettono la firma sotto un articolo che viene pubblicato ma – soprattutto – grazie al senso di responsabilità e ai sacrifici che sappiamo fare per continuare a svolgere il nostro lavoro. Ho ritenuto di offrirti queste considerazioni in un momento di decisioni delicate, in cui Il Messaggero ha bisogno di sentire ancora di più il sostegno e la partecipazione di chi fino ad oggi ha contribuito a renderlo un grande giornale».
Quindi sono i collaboratori a doversi preoccupare del giornale, non viceversa. Sono i collaboratori a dover accettare seduta stante quanto impone la Proprietà, con l'avallo del Direttore. Solo che ai più sfugge come da 10 anni siano i collaboratori a subire decisioni senza che la controparte si sieda a discutere.
Nel 2010 fu l'allora direttore Roberto Napoletano a imporre tagli retroattivi; altri tagli vennero applicati nel 2013 e nel 2017. E nessuno discusse, nessuno si mosse: solo scelte imposte.
Rispetto a quanto avvenuto prima però, stavolta c'è stata una reazione, uno scatto di orgoglio della categoria – perché i collaboratori sono una categoria giornalistica inquadrata nel Ccnlg e prevista dalla Carta di Firenze – che ha portato alla costituzione di un'Assemblea dei Collaboratori sotto l'egida della Fnsi.
Da lì allo stato di agitazione, alle richieste di incontri – negate perché l'azienda ritiene di sottoscrivere accordi singolarmente – fino allo sciopero.
Solo che rispetto a prima, oltre alla Federazione si sono mosse le istituzioni come la presidenza della Commissione Cultura della Camera, il Ministero del Lavoro e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri perché il lavoro giornalistico non è un lavoro qualunque. Ma il Gruppo Caltagirone si è sottratto al confronto persino con loro.
Per sgomberare il campo dagli equivoci, a comporre l'Assemblea non sono giornalisti alle prime armi che si devono fare le ossa. La maggior parte di noi sono iscritti a questo Ordine nell'elenco Professionisti cioè svolgono esclusivamente questa professione o sono pubblicisti veterani. Insomma pagare gli articoli sette euro lordi, spese comprese, è un insulto. Il sistema capzioso con cui si pongono in condizioni di ricatto i collaboratori costretti ad accettare il capestro. Giornalisti ridotti a "braccianti dell'informazione" che lavorano otto, dieci ore al giorno per 800 euro mensili diventati 650.
Per questo ci siamo visti costretti ad aprire una vertenza collettiva per chiedere l’applicazione dei minimi tariffari previsti dal contratto Fnsi-Fieg e di ritirare la proposta unilaterale di taglio di compensi già miseri.
L'Assemblea – insieme a Federazione, Associazione Stampa Umbra e al Sindacato Giornalisti Abruzzesi – sta cercando di portare avanti le istanze collettive con un formale "stato di agitazione" ad oggi ancora in essere. Abbiamo ottenuto qualche scampolo di visibilità per le nostre condizioni di lavoro e ringraziamo delle solidarietà ricevute, ma non siamo riusciti a farci ascoltare.
È importante che i "pilastri" su cui si basa l'informazione in Italia, gli Enti di Categoria, facciano ognuno la propria parte: occorre il pieno sostegno da parte di tutti al Sindacato per quanto concerne la vertenza collettiva; occorre la vigilanza massima dell'Ordine per il rispetto della deontologia e del principio di colleganza, che vacilla, se non crolla, di fronte ai coordinatori di numerose redazioni locali che hanno inserito pezzi freddi, d'archivio, e sconsigliato ai collaboratori di fare sciopero dimenticando i diritti calpestati dei colleghi e non ultimo, così, anche quello di sciopero.
L'Assemblea rinnova l'invito alle parti sociali e al Governo affinché trovi applicazione la Legge sull'Equo compenso e chiede, con forza, di aprire un tavolo di crisi del Messaggero e chiede all'Ordine di dare forza al movimento che vuole la cancellazione dello strumento dei Cococo e delle finte partite Iva, che permettono di fatto una precarietà a vita e creano un "lavoro povero", senza tutele né diritti di cui noi siamo un esempio tra tanti. Strumento questo di sfruttamento legalizzato in mano agli editori. Perché valiamo più di 7 euro.

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